RECENSIONE CRITICA di ALESSANDRO CIAPPA
Scrittore
L’infanzia è senza parole. Darle espressione è certo azione notevole. Si può essere legati all’infanzia
come ad un mondo ben fatto, come ad una condizione di eccellenza o, viceversa, vi si è uniti solo per il
fatto di essere un atto mancato, un ricordo che, propriamente, non ritorna che nella forma di quanto è
stato mancato, di quanto “è stato” ma per il suo mancare. Per quel che riguarda Marco Schaufelberger,
egli è ascrivibile a questo secondo caso. Le sue opere sono piene di questo sentimento e ne è piena la
sua vita, come se fosse rimasto incantato in quell’atto, in quell’atto -mancato- che lo costringe a
ripetersi. E’ nato morto poi il mio amico Marco, ed è questo un altro aspetto che lega la sua vita e la sua
arte. “I miei quadri” mi ha spesso detto ironicamente “nascono poiché io sono morto. Artisticamente ho
iniziato con l essere esposto nei musei e, tenendo conto che l’istituzione museale è un luogo di
conservazione, il luogo post-mortem per eccellenza, ne devo concludere che posso ritenermi già
morto!” Strano destino questo, riscontrabile altresì nella sua mirata produzione, nel suo produrre “quel
tanto che basta”, quel tanto che “resta”, come dice. Conobbi Marco Schaufelberger nel ’95 e l’incontro
fu davvero spiazzante. Mi colpì, d’impatto, il suo volto, il suo sguardo, la nobiltà che ne traspariva.
Passavamo, conoscendoci poi meglio, intere nottate a discutere. Si discuteva di tutto, da Caravaggio,
suo primo amore, ai duelli all’arma bianca. E si dà il caso che Marco sia semplicemente irruenza e
infanzia. Le sue opere ne trasudano, prese tutte in una certa leggerezza, tutte tese verso una
delicatezza che le rende sottili, liriche, gentili, quasi invisibili. Sono fotogrammi, cose violente arrestate
a un singhiozzo, strozzate a un pensiero, quali foto mosse ma che continuano a trasmettere l’idea di
movimento, un fermo- immagine. Vi è poi il colore, la materia stessa del colore, sua ossessione, ove gli
occhi incontrano azzurri trasparenti senza tempo, come in alcuni suoi piccoli affreschi, o rossi terrosi,
verdi nettissimi, stranieri, viola lividi. Ma è difficile parlar di Marco in termini semplicemente artistici. Vi è
di più in lui. Vi è un sapere che è immediatamente un fare, un’immediata esperienza, una sorta
combinatoria di più campi disparati, in cui la scultura insiste nella pittura, la fotografia investe la
scenotecnica, l’arte della cartapesta incontra il disegno. E tutto questo va, in primo luogo, considerato
come un fatto d’esperienza, nel senso che vi appartiene come sua condizione. All’idea segue
immediatamente un fare, o meglio: è l’idea che, per essere tale, deve conseguire un fare, assumerne le
forme. Ciò l’ho potuto avvertire lungo gli anni della nostra amicizia ed è quanto egli stesso più volte mi
ha detto. Marco Schaufelberger è davvero un uomo d’altri tempi, un traduttore in esperienza, un
fabbricatore, un costruttore che traduce il pensiero in gesto, in vita, è una forma di coazione . . . quanto
è detto è fatto. E’ in questo senso che Marco, ben lungi da votarsi a certa puerilità superficiale, è
piuttosto come colto, compreso in un movimento d’infanzia, in quella serietà del gioco che sa
conseguire leggerezza, in un saper accogliere il dolore e la gioia senza ripiegamento o narcisismo.
Quando si ha la dote di questo sguardo, quando si ha negli occhi lo sguardo che sa mirar lontano,
quando si ha coraggio nel saper farsi carico del dolore senza piegarsi, così come della gioia senza
votarsi alla semplice euforia, quando, dico, tutto questo appartiene “all’angolo d’incidenza” di una vita,
allora l’opera stessa consegue la forma di una necessità, in un compiersi al di là del semplice dovere, al
di là dell’idea stessa di produzione. Le produzioni “mirate” lo testimoniano, e lo testimonia, in un altro
senso la sua idiosincrasia verso il concetto di arte, contro l’idea di produzione artistica di cui, a suo dire,
farebbe volentieri a meno. Tale idiosincrasia va al di là della lamentosa retorica dell’artista che
disprezza le sue opere. Il fatto è che Marco si ritrova nelle sue opere perché è “preso” dalla sua
infanzia, si ritrova, ma catturato da una necessità che non è dovere, teso a ripetere, a ripeterne l’atto.
Per questo il suo concetto di produzione, di espressione, è limitato al “minimo indispensabile”.
La prima sua opera che vidi fu una scultura, La dama del naranjo, ora esposta al Museo delle Belle Arti
delle Asturie. Vi era rappresentato un libro sul quale posano mani aperte, sottilissime, una rivolta verso
il libro, l’altra con il palmo verso l’osservatore. Su quest’ultima, a sua volta, sta un’arancia. Mi colpì
l’innocenza dell’opera, i colori netti dei vari elementi, le mani soprattutto, bellissime, l’una aperta come
richiesta, come una stanca domanda, l’altra presa quasi nell’atto di una carezza piena di nervosismo e
pietà. Le cose che Marco mostra sono oggetti solitari, innocenti perché soli, applicati alle tele come
ospiti, come osservatori, testimoni, sullo sfondo di cieli e campi di grano, chiodati a terre laviche, a rossi
brucianti, segnati dallo spavento. E poi la presenza dei cavallucci a dondolo, di cui fa molto uso,
anch’essi invocanti innocenza, testimonianti infanzia, sono vie di fuga in cui si contraggono molti dei
suoi quadri. E così i colori attenuati delle ultime opere, i bleu scavati dal bianco per i cieli atemporali, il
giallo languidissimo per i campi appena sussurrati all’orizzonte, o gli angioletti che posano sulle tele
come i resti di una precedente deposizione. Tutto questo dall’infanzia parte e all’infanzia vorrebbe
tornare se non fosse che, in questa sorta di giro di posta, questo tipo di messaggi, tali lettere scritte con
l’inchiostro della vita, ben al di là del volere, ci perdono di vista, quali cose che solo mancando,
smarrendosi, arrivano a destinazione.